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 guerra del Peloponneso

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fuskens

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MessaggioTitolo: guerra del Peloponneso   guerra del Peloponneso Icon_minitimeSab Giu 05, 2010 8:49 pm

guerra del Peloponneso Athens10






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La lega di Delo

La sconfitta dei Persiani non bastò a liberare la Grecia dall'incubo di una terza invasione. L' impero di Serse era ancora un'immensa riserva di uomini e di mezzi.
I Greci per fronteggiare questa minaccia avrebbero dovuto rinsaldare l'unione che li aveva portati per ben due volte alla vittoria. I più interessati a quest'unione erano gli abitanti delle isole egee. Sparta, che le isole consultarono per prima senza successo, non era interessata a un'alleanza antipersiana; la sua posizione nel Peloponneso era delicata e instabile e non le consigliava avventure esterne. Atene, invece, grazie alla sua posizione geografica e all'imponenza della sua flotta, vedeva coincidere la sua vocazione naturale ad espandersi nel Mediterraneo con la guida di una potente lega di poleis.

Nel 477, sollecitata dalle isole, Atene formò una confederazione con le città greche dell'arcipelago e della costa asiatica. La lega - che aveva come scopo principale la cacciata della Persia dall'Egeo - è chiamata oggi « lega di Delo », perché nell'isola di Delo veniva custodito il tesoro comune degli alleati; a Delo si riunivano anche le assemblee federali.

L' organizzazione dell'accordo fu affidata ad Aristide, che fissò con equità il tributo in navi e in denaro dovuto da ogni confederato; la riscossione del tributo fu affidata a dieci tesorieri, tutti ateniesi, e ad Atene spettava pure l'amministrazione dei fondi per l'ampliamento e la manutenzione della flotta. Anche se ogni città manteneva la sua autonomia e aveva diritto a un voto nell'assemblea federale, era chiaro che Atene godeva in partenza di una posizione preminente, rafforzata anche dall'appoggio di molti stati minori, docili ai suoi ordini.

La lega non tardò a dare prova della sua grande forza: verso il 468, in un'aspra battaglia presso il fiume Eurimedonte, in Asia minore, i confederati distrussero l'esercito persiano e la flotta fenicia che lo spalleggiava dal mare, bloccando così, per il momento, le velleità di riscossa dei nemici. Artefice della vittoria fu lo stratego ateniese Cimone.

Ingratitudine

L'ascesa di Cimone era stata determinata da un cambiamento della scena politica ateniese. Da sempre all'interno della polis due fazioni si contendevano il potere nell'assemblea: una moderata, che potremmo definire « aristocratica » sia per la sua tendenza a contenere le rivendicazioni economiche e sociali degli strati più bassi della cittadinanza, sia per la sua amicizia verso l'aristocratica Sparta; l'altra democratica, portatrice di una politica più aperta e dinamica, nettamente antispartana.

Cimone, esponente della fazione aristocratica, era prevalso in quegli anni grazie al crollo del democratico Temistocle che aveva compromesso l'enorme prestigio acquistato a Salamina sostenendo la necessità di concludere la pace con i Persiani ; la proposta aveva un chiaro obiettivo antispartano, perché la pace avrebbe permesso di dedicare tutte le forze ateniesi alla conquista di un'egemonia sulla Grecia. Ma agli avversari fu facile farla apparire-come un tradimento. Temistocle fu esiliato e braccato in tutto il Mediterraneo, sia dagli Ateniesi che dagli Spartani, finché non gli restò altra scelta che rifugiarsi in Persia. Il re Artaserse, successore di Serse, lo accolse amichevolmente e gli affidò il governo di Magnesia e di altre località. Il vincitore di Salamina morì nel 461 stimato e onorato dai suoi antichi nemici.

Una sorte peggiore era toccata pochi anni prima allo spartano Pausania. Accusato a sua volta di aver stretto accordi segreti con la Persia e di aspirare al potere assoluto, l'eroe di Platea si rifugiò nel tempio di Atena che, come tutti i luoghi sacri, garantiva l'incolumità a quelli che vi cercavano asilo; ma i suoi avversari trovarono il modo di ucciderlo senza versare sangue sacrilego; lo murarono vivo.

La fine di questi due grandi uomini è estremamente significativa e va ben al di là dei limiti di un conflitto fra fazioni avverse nelle due città. L'elemento ricorrente in queste due storie individuali è l'ombra della Persia, che acquisterà un'importanza sempre più rilevante negli anni successivi, fino a diventare l'ago della bilancia nella lotta per l'egemonia che già andava opponendo Sparta ad Atene.



Verso la guerra

Il primo chiaro segno di rottura tra le due città fu un episodio del 462, che segnò anche la fine della carriera politica di Cimone. Poco tempo prima gli iloti della Messenia, approfittando di un violento terremoto che aveva colpito Sparta, si erano ribellati in massa; alcuni di essi si erano poi rifugiati sul monte Itome, da dove non si riusciva a snidarli. Bloccati alle falde del monte e incalzati dal pericolo di altre rivolte, gli Spartani chiesero l'aiuto degli alleati, Atene compresa; Cimone appoggiò la richiesta e indusse l'assemblea a inviare 4000 opliti, ma nonostante questi rinforzi, la rocca di Itome resisteva. Gli Spartani, innervositi dal prolungarsi di questa situazione e resi diffidenti dalla scarsa combattività degli Ateniesi, ne chiesero il ritiro immediato. Questa grave umiliazione provocò un'ondata di risentimento popolare di cui seppero abilmente approfittare i capi della fazione democratica: nel 461 Cimone subì l'ostracismo e prese la via dell'esilio. Contemporaneamente Atene rompeva l'alleanza con Sparta e si univa ai suoi più acerrimi nemici, gli Argivi e i Tessali. Quando poi nel 460 gli iloti del monte Itome patteggiarono la resa ottenendo in cambio la propria incolumità, fu Atene che si incaricò di trovar loro una nuova patria nei pressi di Naupatto, nel golfo di Corinto. Il contrasto emerso in quest'occasione tra Sparta e Atene era il preavviso di un contrasto che avrebbe portato tutta la Grecia al disastro.

L'età di Pericle

Il successore di Cimone alla guida dello Stato ateniese, il democratico Pericle, trasse fino in fondo le conseguenze di questa situazione. Per ben trent'anni a partire dal 460, egli impose sulla scena politica ateniese il peso della sua personalità e diede la propria impronta a un'intera epoca.
Uomo di grande ingegno e di raffinata cultura, oratore persuasivo e affascinante, egli concepì all'interno come all'estero una politica di ampio respiro; all'interno favorì lo sviluppo culturale e artistico della città, che divenne presto, come egli soleva dire, la «scuola dell'Ellade », e accentuò, con importanti riforme, il carattere democratico della costituzione; contemporaneamente puntò tutte le sue carte sulla costruzione di un grande impero, capace di contrastare attivamente l'influenza spartana.

L'impero ateniese

In quegli anni infatti si verificò un graduale ma drastico cambiamento nella politica di Atene verso gli alleati. Atene aveva sempre avuto nella lega di Delo una posizione di preminenza, dovuta alla superiorità dei suoi mezzi e della sua flotta, ma l'attenuava col rispetto formale per la libertà e l'autonomia degli altri membri. Nel 454 invece il tesoro federale di Delo fu trasferito ad Atene, che cominciò a sfruttarlo senza ritegno, persino per costruire i propri edifici pubblici; inoltre da quello stesso anno il consiglio degli alleati non si riunì più: tutte le decisioni spettavano ormai all'assemblea ateniese. Successivamente fu tolto a molti alleati un diritto che da secoli, agli occhi di tutti i Greci, era collegato all'idea d'indipendenza: quello di battere moneta propria. Dovunque lo riteneva opportuno, Atene interveniva per imporre governi di tipo democratico. Le defezioni non erano ammesse: una flotta imponente solcava in continuazione le acque dell'Egeo per sedare sul nascere qualsiasi tentativo di rivolta. Cittadini ateniesi in armi - i « cleruchi » - furono insediati in varie località strategicamente o economicamente importanti. La lega si trasformò così in un vero e proprio impero.

La spedizione in Egitto

Nel 459 intanto Pericle aveva inviato in Egitto una squadra navale, per sostenere Inaro, un principe locale che si era ribellato al Gran Re dei Persiani Artaserse. I rivoltosi, aiutati dagli Ateniesi, ottennero notevoli successi, fin quando l'intervento massiccio delle truppe persiane non stroncò, nel 454, la loro resistenza. Inaro fu crocifisso, e soltanto pochi degli Ateniesi riuscirono a mettersi in salvo attraverso il deserto. Intanto la flotta della lega di Delo si scontrava con la flotta di Artaserse e veniva completamente distrutta.
Questi disastri fecero temere per un momento che la minaccia persiana potesse abbattersi di nuovo sull'Egeo e sulla stessa Grecia; Pericle decise allora di cessare le ostilità, e stipulò nel 449/8 la pace di Callia, così chiamata dal personaggio che la sottoscrisse. Con essa Atene s'impegnava a non invadere i territori persiani, e la Persia a rispettare l'indipendenza delle città greche d'Asia.

Guerra contro Sparta

La conclusione della pace con la Persia e il ferreo controllo degli alleati diedero ad Atene la possibilità di concentrarsi completamente su Sparta. I tempi per lo scoppio di una guerra decisiva erano maturi e l'occasione non tardò a presentarsi.
Atene aveva mandato aiuti a Corcira, che stava combattendo contro Corinto, la più potente alleata di Sparta; aveva deciso anche di escludere da tutti i porti del suo impero la città filospartana di Megara; infine dichiarò guerra a Potidea, una colonia corinzia che aveva deciso di uscire dalla lega di Delo. Tutte queste provocazioni misero in moto una reazione a catena che nel 431 sfociò in un conflitto di proporzioni enormi, destinato a durare più di trent'anni, che fece precipitare la Grecia in una crisi politica dalla quale non riuscì mai più a risollevarsi: la cosiddetta « guerra del Peloponneso ».

Due mondi diversi

Le ragioni profonde del conflitto stavano in effetti nelle differenze inconciliabili che dividevano da sempre le due città. Atene, situata al centro delle maggiori vie di comunicazione della penisola greca, era un attivo centro artigianale e commerciale, dotato di uno dei maggiori scali del Mediterraneo, il porto del Pireo. Il prodotto principale della sua agricoltura, l'olio d'oliva, era destinato soprattutto all'esportazione e le sue strade brulicavano di stranieri provenienti da ogni parte del mondo. Splendidi edifici pubblici e opere dei maggiori artisti dell'epoca accentuavano il carattere aperto alle innovazioni di questa città che era diventata ormai il più vivace centro culturale dell'Occidente. Sparta, isolata nell'entroterra del Peloponneso, traeva dall'agricoltura ciò che le bastava per vivere; odiava gli stranieri e li espelleva periodicamente; conservava ostinatamente la propria costituzione arcaica e, quanto all'aspetto, più che una città sembrava un insieme di villaggi. L'incomprensione fra questi due mondi era totale.

Le forze in campo

I contingenti militari delle due potenze erano entrambi imponenti e fin dall'inizio determinarono una situazione di equilibrio che per molti anni sembrò priva di sbocco.

D Atene poteva contare su una flotta colossale di 300 triremi, cui si aggiungevano le navi degli alleati, manovrate dagli equipaggi migliori del mondo. L'esercito di terra - 13.000 opliti, 1000 cavalieri, 1800 arcieri, 10.000 cleruchi sparsi in varie località del territorio federale - era invece assai meno efficiente. Sparta e i suoi alleati si trovavano in condizioni opposte un esercito imponente - 35.000 opliti, 17.000 fanti leggeri, 1000 cavalieri - che non aveva rivali per esperienza e per preparazione tecnica, ma una flotta decisamente inferiore a quella nemica sia per quantità che per qualità.

La strategia di Pericle

Consapevole dell'inferiorità ateniese sulla terraferma, Pericle aveva elaborato una strategia che prevedeva il rifiuto delle battaglie campali e un'intensa attività della flotta.

L'Attica fu dunque evacuata e la sua popolazione fu concentrata entro le mura di Atene. Contemporaneamente 20.000 opliti spartani guidati dal re Archidamo invadevano la regione mettendola a ferro e fuoco; dal canto suo la flotta ateniese compiva un'incursione dietro l'altra contro le coste e i porti del Peloponneso.

La peste di Atene

Mentre i due avversari si infliggevano colpi durissimi con le armi che a ciascuno erano più congeniali, un terzo elemento si inserì nella lotta facendo pendere la bilancia a favore di Sparta un'epidemia di vaiolo, scoppiata ad Atene nel 429 e dilagata con velocità impressionante tra i profughi dell'Attica, accalcati in città in condizioni igieniche spaventose. Quest'epidemia, passata alla storia come « peste di Atene », causò migliaia di vittime tra le quali lo stesso Pericle. La scomparsa dello stratego privò la città di una guida esperta e autorevole: nessuno dopo di lui dimostrò di possedere capacità politiche e militari altrettanto elevate.

La pace di Nicia

La politica di Pericle fu continuata dallo stratego Cleone, anch'egli propugnatore della continuazione della lotta. Il teatro della guerra si era ormai esteso coinvolgendo città amiche e alleate; dall'Attica, dal Peloponneso all'Egeo, alla Beozia, fino alla stessa Sicilia, una lunga serie di incursioni e di battaglie, di scaramucce e di saccheggi, metteva a dura prova l'intero mondo greco. Gli Ateniesi ottenevano qualche importante successo, ma subito dopo gli Spartani ne annullavano gli effetti infliggendo a loro volta una dura sconfitta. Così nel 425 trecento opliti spartani furono presi prigionieri nell'isola di Sfacteria, ma l'anno dopo il loro re Bràsida occupava quasi interamente la penisola Calcidica, una zona vitale per la sopravvivenza di Atene. Proprio in questa regione, ad Amfipoli, avvenne lo scontro decisivo di questa prima fase della guerra: in esso infatti persero la vita i due accesi sostenitori della lotta a oltranza, l'ateniese Cleone e lo spartano Bràsida.

La morte dei due personaggi più in vista nei rispettivi campi, unita al logorio di tanti anni di duro impegno militare, spinse le due città a stipulare, nel 421, una pace di cinquanta anni: la pace di Nicia - chiamata così dal nome del capo della fazione oligarchica ateniese che la sottoscrisse - che stabiliva il ritorno alla situazione anteriore allo scoppio della guerra. Nessuno, in Grecia, poteva illudersi però che la pace fosse davvero definitiva.

Alcibiade

Dopo la morte di Cleone emerse sulla scena politica ateniese Alcibiade, un uomo colto, ricco, affascinante, dotato di rara bellezza, ma con un carattere incostante e mutevole oltre che sfrenatamente ambizioso; vissuto fin da piccolo in un ambiente impregnato di politica - era stato allevato nella casa di Pericle - egli si gettò con energia nella lotta per il potere tra le file della fazione democratica. Il suo programma - la ripresa delle ostilità contro Sparta e dell'espansione ateniese nel mondo greco - veniva incontro alle richieste del popolo, favorevole a una rottura dell'accordo stipulato da Nicia. Nel 420 Alcibiade fu eletto stratego.

Questa volta lo spunto venne dalla Sicilia. Qui, la città di Segesta, alleata di Atene, conduceva da tempo una sfortunata guerra contro la vicina Selinunte, che godeva i favori della maggiore potenza dell'isola, Siracusa, alleata di Sparta. Nel 416 gli ambasciatori segestani si recarono ad Atene per chiedere aiuto, trovando un'accoglienza entusiastica tra i democratici, primo fra tutti Alcibiade; decisamente contrari si mostravano invece i conservatori, guidati da Nicia. Ma Alcibiade fece abilmente balenare davanti agli occhi dei concittadini una prospettiva allettante: una campagna militare rapida e fortunata contro città ricche ma divise e imbelli, che avrebbe consegnato la Sicilia intera nelle mani di Atene e, con essa, gli uomini e i mezzi sufficienti per sconfiggere definitivamente Sparta.

Il desiderio di riscossa, il miraggio della ricchezza, l'attrattiva dell'avventura, orientarono l'opinione popolare verso la guerra, che fu dichiarata nel 415. Il comando fu affidato ad Alcibiade, Nicia e Lamaco.

La spedizione in Sicilia

Centotrenta navi da guerra, settemila soldati, migliaia di marinai salparono da Atene in agosto; racconta Tucidide:

"Questa spedizione rimase famosa sia per la meravigliosa baldanza dei suoi componenti e lo splendido spettacolo che offrivano, sia per la superiorità d'armamento sui nemici che s'accingevano ad attaccare; restò famosa anche perché era la più lontana che avessero intrapreso, partendo dal loro paese; e, visti i mezzi a loro disposizione, essi avevano aperto il cuore alle più belle speranze di future conquiste. Quando le navi furono in pieno assetto ed era stato imbarcato ormai tutto il materiale con cui intendevano salpare, fu imposto il silenzio a suon di tromba; e le preghiere d'uso prima di scioglier le vele non furono recitate isolatamente, nave per nave, ma da tutte insieme, per mezzo d'un araldo: versato il vino nei crateri, in tutta la flotta con coppe d'oro e d'argento, soldati e ufficiali facevano libagioni. Alle invocazioni faceva eco dalla riva tutta la restante folla dei cittadini. Dopo aver cantato il peana e compiute le libagioni, levarono le ancore ...(Tucidide, VI 31 sg.)

Approdata in Sicilia, l'armata ateniese si accingeva a condurre le prime operazioni di guerra, quando, come un vero e proprio fulmine a ciel sereno, giunse ad Alcibiade l'intimazione di presentarsi immediatamente ad Atene. I suoi avversari politici approfittando della sua assenza, lo avevano accusato di essere l'autore di misteriosi atti di sfregio contro le immagini degli dei, compiuti qualche tempo prima in città, ed erano riusciti a imporne l'immediato rientro per rispondere del reato di sacrilegio. Perfettamente conscio della trappola che gli era stata tesa e della condanna che inevitabilmente gli sarebbe stata inflitta, Alcibiade non esitò un attimo e si recò a Sparta chiedendovi asilo.
Le conseguenze di questo episodio furono disastrose: l'armata di Sicilia fu privata di un generale di grande esperienza e molto amato dai soldati; contemporaneamente gli Spartani traevano grandi vantaggi dai consigli che Alcibiade elargiva senza scrupoli di sorta: gonfio di rancore e desideroso di vendetta, egli li mise al corrente di tutti i particolari della spedizione e li incitò a intervenire.

Intanto gli strateghi ateniesi Nicia e Lamaco incontravano difficoltà superiori al previsto: gli stessi nemici di Siracusa mostravano scarso entusiasmo per la loro iniziativa (solo Nasso e Agrigento avevano assicurato il loro appoggio) e in campo aperto la potentissima cavalleria siracusana appariva imbattibile; inoltre la stessa posizione geografica di Siracusa assicurava alla città una netta posizione di forza.

Nel 414, tuttavia, Nicia e Lamaco riuscirono ugualmente a bloccare la città nemica per terra e per mare; ben presto la caduta di Siracusa sembrò inevitabile e agli Ateniesi cominciarono a giungere aiuti da ogni parte: dalle città greche dell'isola e della Magna Grecia, dai Siculi, dagli Etruschi, interessati tutti a schierarsi dalla parte dei vincitori. Ma mentre i Siracusani decidevano di trattare la resa accadde l'imprevedibile. Una squadra composta di navi corinzie e spartane, guidate dal generale Gilippo, piombò nel porto di Siracusa, imbottigliò la flotta e la distrusse, tagliando agli Ateniesi la via del ritorno. Nicia tentò di salvare il salvabile ritirandosi nell'interno dell'isola; ma nei pressi di un fiume dove si erano fermati a bere, i suoi soldati, esausti e disperati, furono sorpresi dalla cavalleria siracusana e massacrati. I pochi superstiti finirono i loro giorni nelle cave di pietra vicine a Siracusa oppure furono segnati col marchio dei cavalli e venduti come schiavi. Gli strateghi ateniesi furono giustiziati.

La sconfitta di Atene

Il disastro di Sicilia decise le sorti della guerra. Atene resistette ancora per qualche anno, sostenuta da Alcibiade che nel frattempo era tornato in patria e aveva riacquistato la sua popolarità, ma il compito che l'attendeva era ormai troppo pesante: molti membri della lega si ribellarono, insofferenti della prepotente egemonia ateniese; i dissensi interni fra aristocratici e democratici contribuivano a paralizzare decisioni politiche e iniziative d'ogni genere; Sparta, infine, concluse una vergognosa alleanza con la Persia, vendendole, in cambio di mezzi e di finanziamenti, la libertà delle città greche d'Asia. Atene ottenne un ultimo, clamoroso successo nel 405 nella battaglia navale delle Arginuse, ma l'anno dopo fu vinta a sua volta a Egospotami.

L'impero crollò, mentre il generale spartano Lisandro entrava con le sue navi nel Pireo. I Tebani e i Corinzi proposero di trasformare la città in un terreno da pascolo, ma gli altri Greci non ne ebbero il coraggio. Atene fu però costretta a rinunciare all'impero, a demolire le fortificazioni, a consegnare tutte le navi. Abbattuta dopo mezzo secolo di lotta la potente rivale, Sparta estese la sua egemonia su quasi tutta la Grecia. Durante la guerra essa aveva sobillato gli alleati di Atene con il miraggio della indipendenza, ma ora che aveva vinto impose ovunque un governo molto duro.

Nel 404 Atene fu costretta ad arrendersi: le mura e le fortificazioni della città e del Pireo vennero abbattute, e la flotta fu distrutta, tranne dodici navi. Atene fu quindi costretta ad aderire alla lega del Peloponneso, guidata da Sparta, ma conservò la propria indipendenza e non venne rasa al suolo come i Corinzi avrebbero voluto. Poté anche scegliere la propria forma di governo. Dapprima prevalse il partito aristocratico; poi Trasibulo reintrodusse la democrazia, e gli Spartani non si opposero.


La sconfitta di Sparta e la breve supremazia di Tebe
Il predominio degli Spartani in Grecia era assicurato soprattutto dalla forza delle armi e dalle guarnigioni militari che controllavano le città più importanti. Ma tutto questo comportava enormi sacrifici per i cittadini spartani, il cui numero continuava a diminuire. Ne approfittò Tebe, la più importante città della Beozia, che decise di ribellarsi alla guarnigione spartana. I Tebani, guidati da Pelòpida, sconfissero ripetutamente gli Spartani. Nella battaglia conclusiva, a Lèuttra (371 a.c.), il grande generale tebano Epaminonda batté l'esercito spartano e penetrò nel Peloponneso.
Sparta fu costretta a cedere i ricchi territori della confinante Messenia e, dopo la battaglia di Mantinèa (nuovamente favorevole ai Tebani), nel 362 a.c. cessò di avere una parte rilevante nella storia greca.


Ma il trionfo tebano fu di breve durata, poiché la città non era né ricca, né potente militarmente. La Grecia fu sempre più dilaniata dalle continue guerre e dalle lotte civili: ogni città, infatti, era così gelosa della propria indipendenza da preferire il disordine e la debolezza a qualsiasi accordo o sottomissione. E di questa debolezza finì per approfittare lo Stato macedone.



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